La crisi di Tesla e le richieste protezionistiche di Musk
- Marco Clementi
- 29 gen 2024
- Tempo di lettura: 5 min

La stagione degli utili a Wall Street è in corso, e nella settimana appena trascorsa è toccato anche a Tesla comunicare i dati relativi all’ultimo trimestre del 2023. Sono stati dati che il mercato ha giudicato pessimi; sia i ricavi che gli utili si sono rivelati inferiori rispetto alle stime degli analisti. Ciò ha comportato una reazione scomposta da parte del mercato, che ha venduto in massa la casa di Austin, la quale ha registrato un -12% del valore azionario al termine delle contrattazioni (è giusto sempre riportare questi numeri percentuali nella realtà; per Tesla, significa una contrazione della sua capitalizzazione di 70 miliardi di dollari, nessuna società italiana raggiunge il semplice valore della contrazione…).

Da inizio anno, le azioni del maggior produttore di veicoli elettrici hanno “perso” oltre un quarto del loro valore; si tratta dell’unica azienda facente parte delle magnifiche 7 ad aver visto una contrazione del valore. Eppure, i dati non riportano un’azienda in crisi; le vendite sono aumentate in maniera considerevole e anche i ricavi (di poco, ad essere onesti) e la posizione come primo produttore di veicoli elettrici al mondo sono stati mantenuti.

Ma si sa, il mercato ragiona pensando al futuro, e la notizia di questo inizio anno è stata la ribalta del produttore cinese BYD che, solo considerando il periodo tra ottobre e dicembre, è stata l’azienda a consegnare più auto elettriche in tutto il mondo e ha dichiarato di essere pronta per aumentare i suoi interessi in Europa. In questo contesto, le parole di Elon Musk a margine dei dati della sua azienda sono sembrate una sentenza: “senza dazi e misure protezionistiche, i cinesi demoliranno i rivali globali”.

In questo momento, l’imprenditore di origini sudafricane non se la sta passando bene, tra accuse di antisemitismo e inchieste giornalistiche che lo accusano di fare un consumo eccessivo di droghe che potrebbero renderlo non abile alla guida delle sue molte società. Sì, perché Musk ha ormai interessi in tantissimi campi ritenuti strategici; oltre ai veicoli elettrici, le sue società seguono i lanci spaziali, il trasporto pubblico, le connessioni internet, criptovalute, l’intelligenza artificiale e i social network.

Ultimamente, le sue uscite sono sembrate molto più politiche e si sono alternate alle sparate da imprenditore un po’ troppo ottimista (l’ultima riguarda la dichiarazione rispetto all’abbandono da parte di Tesla delle terre rare, senza però spiegare come il loro impiego sarà sostituito. Quest’anno doveva essere l’anno dello sbarco su Marte, salvo poi posticipare per ora al 2029. E come non citare Hyperloop One, il super treno che avrebbe dovuto collegare realtà lontanissima e sostituire i voli; la società è stata chiusa sul finire dello scorso anno).

Nel contesto politico si pone la dichiarazione contro i produttori cinesi, indicati come il pericolo numero uno per l’intera industria automobilistica. Fa specie che solo una settimana fa Carlos Tavares, amministratore delegato di Stellantis (l’azienda olandese nata dalla fusione dell’italiana FCA e della francese PSA), abbia fatto queste dichiarazioni: “Con il taglio dei listini delle BEV avviato da Tesla si è aperta una guerra al ribasso che rischia di finire in un bagno di sangue”, indicando quindi come il comportamento della casa americana possa nuocere a tutti i produttori e facendo intendere di trovarla una mossa predatoria da parte del leader di settore.

L’unica cosa chiara è che il settore dell’automotive, che è rimasto quasi identico per quasi un secolo, sta vivendo uno sconvolgimento e una rivoluzione, ma siamo sicuri che il protezionismo sia il miglior traghettatore verso il futuro? Tuffandoci nella storia, ritroviamo i primi esempi di protezionismo nelle politiche francesi di Colbert (nel 1600), che arriva a vietare l’importazione dei filati inglesi a loro volta prodotti in India con un notevole vantaggio economico, sancendo una vera guerra commerciale tra le due potenze europee che si protrarrà per un secolo e vedrà nascere l’egemonia inglese.
Il protezionismo è cominciato a sembrare difficilmente applicabile via via che la globalizzazione prendeva piede; gli intrecci economici resero sempre più difficile la difesa di interessi particolari. Ma il protezionismo non è finito. Ogni crisi tende a tirare fuori moti proibizionisti e anti mercato, successe con la crisi del 2008 ed i pacchetti di stimolo che Obama sottopose al “buy american” e sta succedendo oggi con la guerra commerciale tra Cina e USA.

I promotori dei dazi sostengono che alcuni settori, che potremmo definire strategici in un’accezione ampia del termine, possano essere protetti per permettere ai Paesi promulgatori dei dazi di allineare le loro produzioni ai nuovi standard. I problemi di questo approccio sono molteplici, primo fra tutti il costo di queste politiche che viene sostenuto dai consumatori degli Stati “protetti”; i cittadini di questi Paesi non beneficiano delle migliori condizioni possibili, finendo per pagare di più quei determinati prodotti. In secondo luogo, queste politiche sono spesso considerate alla stregua di dichiarazioni di guerra o, nel migliore dei casi, di provocazioni meritevoli di rappresaglie che a loro volta andranno ad aumentare sempre più gli ambiti di applicazione dei dazi, col rischio che dazi temporanei si trasformino in costi perpetui.
Infine, il rallentamento economico e tecnologico è un aspetto che deve essere preso in seria considerazione: mercati concorrenziali non solo permettono di avere efficienze allocative, ma spingono i contendenti ad investire di più in ricerca e sviluppo creando spinte tecnologiche che portano in avanti i loro settori.
Certo la Cina è un competitor particolare: uno Stato che fa ampio ricorso ad aiuti verso le sue aziende, confonde i confini tra pubblico e privato, non applica politiche a favore dell'ambiente o dei diritti umani. In una parola potremmo definire le aziende cinesi come dei rivali scorretti sotto diversi punti di vista e quindi potremmo accettare un atteggiamento ostile verso le aziende cinesi, ma quale sarebbe il reale limite di queste politiche? Cosa realmente andrebbero a favorire?
A livello finanziario politiche protezionistiche possono portare distorsioni nei flussi dei capitali, politiche considerate così estreme tendono ad allontanare gli investitori che preferiscono governi che attuino politiche maggiormente favorevoli al libero mercato.
Inoltre l’aumento dei costi nei settori oggetto di dazio tende ad erodere i margini di tutte le altre aziende che devono rifornirsi con quei prodotti.
Essendo il dazio di natura politica la sua gestione tende ad aumentare l’incertezza percepita dai mercati: quanto dureranno, quale sarà la risposta estera, come la domanda dei consumatori reagirà agli aumenti di prezzi? Sono tutte domande alle quali è difficile dare risposte sensate durante politiche proibizionistiche.
Quindi che fare? Ci sono settori che non possono essere non presidiati, però è possibile diminuire il peso relativo in portafogli per diminuirne il rischio, inoltre non è mai il caso di puntare forte su un singolo emittente, se da un lato l’opportunità è grande dall’altro il rischio è piuttosto sostenuto e potrebbe rendere la scelta una zavorra finanziaria.
Ancora una volta la diversificazione non è la soluzione ma un concreto aiuto nella definizione della nostra strategia di investimento!
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