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POVERI PER CONTRATTO

Questa settimana va avanti lo scontro politico sull’eventualità di introdurre un salario minimo orario per un attività di lavoro subordinato, in queste stesse giornate la procura di Milano commissiona una società di sicurezza privata, la Mondialpol per capolarato e sfruttamento dei lavoratori, il titolo dell’articolo lascia poco spazio all’immaginazione:


VIGILANTES A 4 EURO


All’interno dell’articolo vengono raccolte alcune testimonianze che riportano stipendi medi mensili sotto i 1000 € netti, troppo pochi, considerando che in Italia la soglia di povertà per un singolo si aggira negli intorni di 800 € con località dove l’asticella dovrebbe essere più alta come Milano, la sede della compagnia.


Nell’articolo viene anche sotto inteso un atteggiamento ai limiti del minaccioso da parte della ditta milanese, ma a ben vedere il contratto collettivo del settore della vigilanza privata ben poco si distacca, prevedendo per i livelli che non richiedono responsabilità paghe lorde negli intorni dei 1100 € su 40 ore. Logico pensare che una persona per poter vivere in dignità sia costretto al ricorso di straordinari, cosa che va contro la logica stessa dello straordinario.

Già poco tempo fa sempre il tribunale di Milano ha condannato la Civis, sempre un azienda operativa nelle vigilanza privata, a risarcire una dipendente con 6700 € per averle corrisposto una paga oraria di 3,96 € all’ora contravvenendo all’articolo 36 della costituzione che prevede:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Queste vicende giudiziarie amplificano la discussione in merito all’introduzione di una norma che fissi uno standard minimo nelle retribuzioni salariali.

Il grafico rappresenta come in un mercato perfetto l’introduzione di un salario minimo andrebbe a creare una distorsione con un conseguente aumento della disoccupazione

Le ragioni del non introdurre una misura a tutela dei minimi salariali pone le basi nella teoria economica classica che nota una possibile problematica nell’introduzione di un salario minimo troppo alto, questo comporterebbe un innalzamento della disoccupazione perchè il lavoro meno qualificato diventa troppo costoso per la sua utilità.

Sempre seguendo questa linea di pensiero il salario minimo creerebbe delle inefficienze durante i periodi recessivi e rallenterebbe la crescita dei posti di lavoro, ipotizzando la base di lavori a bassa specializzazione come quella maggiormente creata.

Potrebbe inoltre portare ad una spirale salariale premendo al rialzo i salari che in precedenza erano vicini alla soglia minima e facendo innalzare di conseguenza tutti gli altri, se questo aumento del costo del lavoro fosse scaricato sulla clientela finale vi sarebbe un aumento inflazionistico rilevante.


A livello teorico vi sono anche ipotesi a sostegno dell’introduzione di un salario minimo, per esempio salari molto bassi pongono una barriera all’ingresso di nuovi lavoratori che potrebbero preferire restarne al di fuori.


Ma la ragione principale teorica principale è la distanza del mercato del lavoro rispetto ad un mercato perfetto, infatti nella quasi totalità dei casi reali, domanda (imprese) e offerta (lavoratori) non hanno lo stesso peso contrattuale che neppure viene ribilanciato tramite l’associazionismo sindacale, si dice che ci troviamo in un mercato monopsonico, ossia l’esatto contrario del monopolio in cui esiste un unico soggetto forte dal lato dell’offerta, qui abbiamo un peso specifico maggiore sul lato della domanda.

Inoltre a supporto del valore della norma viene il lavoro di un nobel per l’economia, per la precisione David Card che nel 2021 è stato insignito del premio per il suo metodo di ricerca empirico che è riuscito a confutare le teorie neoclassiche, il suo lavoro di maggior rilievo è stato elaborato con Alan Krueger, già consigliere per l’economia del governo Obama, lui non ha potuto ricevere il premio in quanto prematuramente scomparso nel 2019, il loro articolo intitolato: Minimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast Food Industry in New Jersey and Pennsylvania cerca di capire sul campo come l’aumento del salario minimo abbia inciso sui lavoratori dei fast food in New Jersey, seguendo la teoria classica ci si sarebbe aspettato che un aumento del salario minimo in uno Stato avrebbe avvantaggiato lo Stato vicino e aumentato la disoccupazione nel primo, la loro ricerca ha appurato come questo non sia avvenuto, anzi l’occupazione relativa si alzò del 13% proprio nel New Jersey.


Tra le ragioni a favore del salario minimo aggiungerei una delle critiche che non ho volutamente riportato, ossia il salario minimo spingerebbe all’automazione di alcuni lavori, aumentando la produttività generale ma limitando gli attuali posti di lavoro. Il problema della produttività in Italia è forte e consolidato, qualsiasi intervento che possa incidere in quella direzione è sempre ben accetto.

Da notare la spaccatura tra Paesi della UE allargata e il suo nucleo storico

L’Italia è uno dei pochi Paesi in Europa senza un salario minimo, gli altri sono: Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria e Cipro. Anche nel resto del mondo il salario minimo è diffuso

Il primo Paese ad introdurlo fu la Nuova Zelanda a fine 1894 seguito da Australia e Regno Unito. Negli Stati Uniti arriverà nel 1938

E addirittura in USA il salario minimo è presente dalla prima metà del ‘900, naturalmente con importi diversi tra Stato e Stato che paiono comunque ridotti rispetto alle differenze presenti in UE

Con la sola eccezione della Florida (a maggioranza Repubblicana) gli Stati con un salario minimo peggiore sono tutti Repubblicani. Questione politica?

Leggendo i dibattiti parlamentari, anzi extra parlamentari, insomma le interviste giornalistiche, non si riesce bene a comprendere quali siano le ragioni che pregiudicano il suo ingresso, da destra, che è dove si osteggia maggiormente la misura, sembrano non voler dar vinta una battaglia che sembrerebbe risiedere nel dna della sinistra.


Eppure in oltre 70 anni di storia repubblicana non è mai stato introdotto il salario minimo e se pur per brevi periodi, anche la sinistra ha avuto le redini del governo, di solito si intende che l’articolo 36 della costituzione, quello riportato in precedenza, introduca già nel nostro ordinamento una sorta di salario minimo col valore aggiunto di essere elastico nell’interpretazione e quindi sempre attuale, ma questa è una flebile giustificazione in quanto lo strumento giuridico dovrebbe sempre essere promosso dal lavoratore, parte debole del contratto che dovrebbe imbarcarsi in una causa costosa con in più il parametro elastico che non gli permetterebbe di sapere subito se la causa sarà vinta oppure no (questo perchè l’elasticità dovrebbe essere ricondotta ai dati ISTAT, ma potrebbero esserci cause esterne, come una crisi economica, che potrebbero portare a ritenerlo un parametro non esaustivo).


A ben guardare oggi, tra gli oppositori, in maniera paradossale, si indica tra le possibili soluzioni alternative il rafforzamento della contrattazione collettiva.

L’aggettivazione paradossale l’ho inserita in quanto la contrattazione collettiva è nelle mani dei sindacati, che sono storicamente più vicini alla sinistra o al centro sinistra e pare molto strano che il governo più a destra di sempre voglia coinvolgere una parte a lui lontano.

Credo che sia utile vedere i numeri del sindacato di oggi e capirne la crisi, nonostante i numeri degli iscritti siano in aumento ciò pare dovuto ad un incremento esponenziale degli iscritti non lavoratori, i pensionati, che rappresentano in maggioranza le associazioni di lavoratori.

Inoltre se vediamo la penetrazione dei sindacati all’interno del mondo del lavoro notiamo una flessione nella seconda che inizia a partire dalla seconda metà degli anni ‘70 (per intenderci l’anno dell’omicidio Moro e dell’inizio della vera lotta al terrorismo brigatista) e che accentua di parecchio la flessione negli anni ‘80 per poi continuare a scendere fino ai giorni nostri con un unico cambio di tendenza durante gli anni più difficili della crisi finanziaria globale (tra il 2009 e il 2011).


Questa naturalmente è una personale speculazione, ma parrebbe che fin quando il sindacato è stato forte non vi era nessun interesse da parte dei partiti di sinistra ad introdurre una legislazione che avrebbe tolto parte del lavoro ai sindacati e solo con la crisi del sindacato storico (oggi è forte la concorrenza dei sindacati di base) ci sia stato un ritorno di fiamma sulla questione salario minimo, ritorno di interesse comunque annacquato dall’erosione del consenso dei partiti di sinistra tra le fasce dei lavoratori dipendenti a più basso reddito (una crisi di autorevolezza che la sinistra comincia a pagare dal primo appoggio esterno del PCI ad un governo democristiano, la svolta verso la creazione del partito responsabile che è proseguita fino ai giorni nostri).


Tra le ragioni del non legiferare vi è il fatto che l’intervento riguardi una fetta minoritaria dei lavoratori (meno del 20%, tra questi è utile sottolineare che sono presenti i camerieri/e che se ben ricordate solo poco tempo fa erano indicati come lavoratori introvabili) e che la maggior parte dei contratti collettivi (spingendo ad un loro allargamento) già oggi prevedano salari minimi superiori rispetto a quello previsto da un ipotetica norma e che andrebbe a minare le aziende più piccole e potrebbe far aumentare i costi del lavoro andando ad incidere sull’inflazione generale (difficilmente però le aziende piccole riescono a “fare il prezzo” e visto e considerato la platea minoritaria di lavoratori previsti mi pare che siano considerazioni più teoriche o politiche che fattuali).


Vi potrà sembrare un salto all’indietro molto ardito, ma commenti simili vi furono oltre 150 anni fa, quando al parlamento del Regno d’Italia si provava ad avanzare una legge che andasse a normare il lavoro minorile.


La legge, oggi ci sembra una cosa inverosimile, voleva evitare la possibilità di lavorare ai minori di 9 anni e il lavoro notturno ai minori di 14 anni, ma questi tre articoli che dovevano essere inseriti all’interno di un codice sanitario nel 1870 non saranno ricompresi e bisognerà aspettare solo 16 anni dopo per vedere introdotto l’età minima ai 9 anni (nonostante la legge non sarà introdotto un vero sistema di controlli e non sarà raro vedere bambini di 5 anni impiegati in lanifici o miniere).

Le ragioni dell’opposizione a queste norme erano simili a quelle attuali: non si voleva creare disagio ad un economia industriale giovane nell’Italia appena unificata e si temeva una spirale inflazionistica (o meglio un aumento dei costi di produzione, l’accento è più sulla competitività all’estero e ad un erosione dei profitti piuttosto che alla famosa tassa occulta; inoltre l’economia italiana non aveva avuto impulsi dovuti all’applicazione delle nuove tecnologie al lavoro, vi erano scarsi investimenti privati e una bassa produttività, un filo comune nella nostra storia) dovuta al più alto costo della manodopera adulta.

Un ritratto di Alessandro Rossi

Vi era inoltre una serie di voci, la cui più importante era dello stimato industriale Alessandro Rossi titolare del lanificio di Schio che riteneva la normativa un intrusione nell’autonomia imprenditoriale e sosteneva come già Lui stesso aveva introdotto delle tutele al lavoro minorile e femminile (le due aree venivano valutate assieme, sia come parte debole della società sia con l’intento di spaccare a metà il mondo del lavoro) e che già queste erano più che sufficienti.

Ed effettivamente Schio è la rappresentazione del paternalismo economico, non è necessario un intervento normativo perchè già ci pensa l’imprenditore, non solo padrone ma benevolo padre: quindi fece costruire case, giardini, bagni pubblici, l’asilo, la scuola e la chiesa.

Il progetto del nuovo quartiere operaio a Schio

Tutto era stato pensato per mantenere gli operai il più possibile all’interno della zona della fabbrica e suddivisi in famiglie, questo per evitare l’ammassamento degli operai e l’unione in associazioni di protesta.

Difatti il Rossi in parlamento rappresentava gli interessi di una categoria, ossia i proprietari di lanifici, che impiegavano molta manodopera minorile su turni anche notturni.

Oggi il lavoro minorile e il suo sfruttamento ci sembrano cose molto lontane nel tempo, ma non è così. Action aid ha stimato che nel mondo ci siano almeno 159 milioni di bambini che vengono costretti a lavorare fin da giovanissimi e ogni anno muoiono almeno 22000 bambini durante il loro lavoro.


In finanza quando pensiamo alla tutela dei diritti dei lavoratori, contro il lavoro minorile e per un adeguata distribuzione salariale, dobbiamo guardare al fattore S delle strategie ESG, il fattore della sostenibilità sociale.


Quando si pensa alla sostenibilità viene subito in mente la lotta contro il cambiamento climatico e a favore di un ambiente più sano e meno sfruttato, ma la sostenibilità non si limita certo a questo, nel fattore sociale rientrano tutte le dinamiche del mondo del lavoro: lavoro minorile, sfruttamento del lavoro forzoso, non discriminazione, eque retribuzioni, sperequazione economica interna, ma anche comunicazioni corrette verso tutti gli stakeholder (dai governi ai consumatori).


Le problematiche sopra riportate ci sono più vicine di quello che si pensi, per esempio in Europa il play gap tra il lavoratore col salario più basso e i manager è andando via via aumentando, passando dalle 45 volte degli anni 80 fino ad arrivare alle oltre 600 volte dei giorni nostri.

Per fare un esempio nel 2021 Tavares CEO di Stellantis, la vecchia FIAT per intenderci, ha incassato circa 19 milioni di euro circa 740 volte lo stipendio di un suo operaio.

Il rischio per il potenziale utilizzo di lavoro forzato

Anche i casi di lavoro forzoso e minorile ci sono più vicini di quanto pensiamo, le recenti ondate migratorie, che sono sempre state gestite solo per fini politici, hanno incrementato i rischi del lavoro forzoso che in Italia hanno portato nel 2016 a creare un nuovo reato, quello di capolarato.

Oppure i casi di gender gap e comunque il coinvolgimento femminile nella vita della società (dall’educazione fino ad arrivare alle cariche apicali nelle aziende), anche qui non serve andare fino in Afganistan per notare una situazione pessima, in Italia 3 donne su 10 non hanno un conto corrente, non sono quindi libere di decidere della propria vita.


Investire in fondi che applicano le strategie ESG e in particolare nel fattore S significa aderire e rafforzare strategie di engagement, ossia fare delle pressioni “prioritarie” alle aziende in quanto azionisti rilevanti anche attraverso azioni di boicottaggio

o proprio sfiduciare col voto in assemblea dei soci quei consigli di amministrazione che non hanno seguito corrette direttive.


Per esempio è notizia del 2017 di un accordo tra il fondo sovrano norvegese (uno dei più grandi del mondo, re investe i proventi dovuti alla vendita di idrocarburi) ha stretto un intesa con Unicef per fermare lo sfruttamento del lavoro nel campo della moda (oggi come ieri uno dei settori a maggior impatto negativo sul lavoro) minacciando disinvestimento ingenti in caso di inerzia da parte dei big del settore (atteggiamento che già aveva avuto rispetto alle aziende attive nella lavorazione dei carburanti dando seguito alla minaccia e disinvestendo 35 miliardi di dollari).


Anche se molto lentamente qualcosa si sta muovendo e tu puoi attivamente incidere in questo cambiamento anche tramite le tue scelte finanziarie.

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